Le occasioni mancate nella vicenda radicale


Intervento di Giulio Ercolessi invitato al convegno “Sognatori cercansi”, organizzato da Pier Paolo Segneri e dal gruppo “Bellezza radicale” a Roma, Palazzo Santa Chiara, il 24 giugno 2023.


Quando Pier Paolo Segneri, che ringrazio, mi aveva invitato a questo incontro, mi era sembrato di capire che si trattasse quasi di un ritrovo per celebrare l’anniversario della fine del liceo, un’occasione per rivedere facce e amici persi di vista, più che di una riunione politica in qualche modo operativa. Dopo avere ricevuto ieri un messaggio che invece sembrava delineare proprio qualcosa del genere, ho preferito buttar giù per iscritto in treno qualche riga che si aggiunge al bilancio critico della vicenda radicale che avevo pubblicato dopo la scomparsa di Marco Pannella nel 2016.

Io non sono per nulla pentito di nessuna delle prese di posizione di fondo assunte negli anni del mio impegno politico, né con né all’interno del Partito radicale. Quanto invece al quesito se ne valesse la pena, visto come sono poi andate a finire le cose negli ultimi decenni, nutro più di qualche dubbio.

Nel corso di una riunione del Consiglio federativo del PR, un mio predecessore nella carica di segretario nazionale, nel rimarcare una certa mia estraneità alla natura profonda di quel che era diventata la “comunità” radicale, di quel che a suo avviso doveva anzi continuare a essere, mi rinfacciò di esserci arrivato, benché a soli 18 anni, “già saputo” (sic), di non essermi cioè essenzialmente formato alla politica nella strada, ai banchetti e nei digiuni al fianco di Pannella. Dal suo punto di vista aveva perfettamente ragione. Potrei dire, con il mio concittadino Umberto Saba, “ero fra lor di un’altra spece”[1].

Ero diventato liberale in conseguenza di quel che avevo letto, e la mia precedente esperienza nella sinistra dell’organizzazione giovanile del Partito Liberale, di cui ero stato un dirigente locale, mi aveva già reso alquanto insofferente delle costrizioni insite in quella reductio ad unum di opinioni, gerghi, priorità, luoghi comuni e sensibilità culturali in cui inevitabilmente consistono la vita politica e la vita di partito. Capitato in via di Torre Argentina (al 18 e non al 76, in quegli anni) nella pausa di una gita scolastica pasquale nel 1971 al solo fine di offrirmi di riorganizzare a Trieste la Lega per il Divorzio in previsione del referendum appena richiesto dalla DC e dalla Chiesa cattolica, avevo scoperto e preso sul serio l’idea radicale secondo cui il partito non doveva essere una comunità, ma un’associazione di cittadini legati soltanto dal perseguimento di scopi ben definiti.

Allora quegli obiettivi erano, per il Partito radicale, pressoché esclusivamente costituiti da riforme laiche, antimilitariste o comunque antiautoritarie in materia di diritti civili, e da qualche campagna contro la corruzione del “regime democristiano”: pressoché esattamente le stesse priorità dello spiffero di sinistra della corrente di sinistra del PLI in cui mi riconoscevo. La “narrazione” di contorno – i vaghissimi accenni a una qualche prospettiva “socialista libertaria”, l’incomprensibile vezzo di chiamarsi “compagni” (senza dubbio per me allora l’ostacolo maggiore), una passata alleanza elettorale altrettanto incomprensibile con lo PSIUP – diventavano per me relativamente irrilevanti, se quel che contava davvero dovevano essere gli obiettivi di riforma, rispetto al vantaggio di una semplificazione che avrebbe reso più lineare e comprensibile un impegno politico progressista che fino ad allora svolgevo pur sempre all’interno di un partito che nella sua maggioranza faceva l’opposizione da destra al centrosinistra. Nella narrazione radicale venivano appena fatti salvi – bontà loro – i soli liberali “gobettiani”, ma io, ben più che gobettiano, ero semmai un liberale “vittoriano”, nella genealogia che ne aveva dato Guido de Ruggiero. Epperò quasi tutti i “nuovi radicali” provenivano anche loro dal PLI, salvo Spadaccia, saragattianamente marxista (e si avvertiva, e quanto lo si avvertiva …). Anzi, si può dire che, dopo una lunga diversione verso una relativa ortodossia da sinistra mainstream negli anni precedenti, di cui avrei appreso con una certa costernazione e sorpresa solo qualche tempo dopo, i nuovi radicali si stavano per certi versi un pochino riavvicinando alla matrice originaria, soprattutto attraverso un marcato anticonformismo, che ne avrebbe progressivamente allargato la distanza dalla sinistra tradizionale e in seguito anche dalla “nuova” sinistra di quegli anni (inizialmente peraltro oggetto, quest’ultima, di prolungati flirts, specie in polemica con il PCI).

Come allora tutti gli italiani estranei al miglio quadrato della politica romana, non sapevo chi fosse, né sarei stato capace di riconoscere Marco Pannella, che pure avevo sentito parlare, ma assieme a tanti altri, alla riunione costitutiva della Lega per l’Abrogazione del Concordato a Milano qualche mese prima. Dopo una prima presa di contatto diretta a Firenze in occasione di una manifestazione anticoncordataria in giugno, ebbi occasione di parlarci davvero per la prima volta a Roma in ottobre, quando da pochi giorni ero già iscritto al PR dopo essermi letto l’ingente documentazione di cui mi aveva caricato a Pasqua Cicciomessere, che era all’epoca il silenziosissimo segretario del partito, cosa che in occasione della mia visita non avevo potuto minimamente sospettare.

Già refrattario per costituzione a invaghirmi politicamente di una persona piuttosto che di una visione strutturata delle cose, l’opportunità di conoscere da vicino Pannella non mutò minimamente tale mia predisposizione, specie quando constatai che Pannella non conosceva per nulla John Dewey. Lo strumentalismo di Dewey era stato il mio approdo filosofico di liceale (senza la mediazione di Giulio Preti allora in voga fra i marxisti), benché la prefazione di Guido Calogero a una sua opera minore me lo avesse distrutto solo pochi mesi dopo. In Italia Dewey era conosciuto prima di tutto come pedagogista e in secondo luogo come filosofo, solo da ultimo come pensatore politico, tuttavia era stato ampiamente tradotto anche in quella veste da una casa editrice di ascendenza azionista come La Nuova Italia. Che un appartenente alla cultura liberale progressista o post-azionista non lo conoscesse affatto mi pareva incomprensibile. Ma Pannella all’epoca era, più che francofilo, francomane. Ed era immerso nel giornalismo e ancora in ribellione edipica contro l'intellettualismo del Mondo di Pannunzio. Compresi fin da quella prima conversazione, a 18 anni,  che poteva essere il leader del mio nuovo partito, ma che non sarebbe stato la stella polare della mia cultura politica. In un partito che si voleva unito dai soli scopi, la cosa non mi pareva neppure molto rilevante. Ma, equivoco foriero di contrasti successivi, non credo che lo avesse compreso anche lui.

Va detto però che in quel periodo era proprio Pannella che, resistendo alla sua stessa natura, e avvertendolo contraddittorio con le politiche libertarie del partito, faceva di tutto per contenere, o almeno occultare, l’evidente progressivo emergere della propria leadership prettamente carismatica: fra veci alterne continuò in questo sforzo fino al 1974, cioè, per mia malasorte (dato che io lavevo preso sul serio), proprio fino all’anno della mia segreteria, una segreteria significativamente collegiale, che di quello sforzo di self-restraint di Pannella fu probabilmente una delle ultime manifestazioni, verosimilmente proprio l’ultima.

Qualcuno si ricorderà come andò a finire. Personalmente resto del parere che quel Partito radicale perse l’occasione di dare stabilmente vita a un più ampio partito liberale progressista, federalista europeo, laico senza aggettivi limitativi, antitotalitario e antiautoritario, coscienza critica dell’approdo occidentale dell’Europa intera, propugnatore dell’espansione delle libertà individuali e dei diritti costituzionali. L’indebolimento, ovunque in Occidente, della prospettiva socialdemocratica, travolta dai mutamenti tecnologici, demografici ed economici degli ultimi decenni, lo avrebbe forse potuto rendere protagonista, al di là delle etichette, non solo in Italia.

Il PR scelse invece la via della comunità – nel senso forte e tönniesiano del termine – di volta in volta mobilitata a sostegno delle iniziative, degli umori, e delle a dir poco avventurose scelte di alleanza del leader. Quello non era più il mio partito, e non posso esserne oggi nostalgico.

Ancora, come accennato, nel pieno della rivolta edipica contro i “vecchi radicali” e gli intellettuali del Mondo, Pannella teorizzò l’abbandono di ogni teoria politica in favore della sua lunga “teoria di fatti”. Ma quella teoria di fatti, di umori e di alleanze è stata troppo tortuosa, troppo segnata da fasi, obiettivi e priorità diversissimi fra loro e spesso contraddittori, perché se ne possano oggi trarre indicazioni univoche. Ed è stato inevitabile, credo, proprio per questo, il successivo sparpagliamento trasversale dei transfughi su uno spettro così ampio del sistema politico italiano. Da un certo punto in poi il cemento fornito da una comune cultura politica si è rivelato molto debole se non inesistente, e ciascuno dei transfughi ha prolungato, perseguito e sviluppato per proprio conto la propria personale “teoria di fatti”, con esiti spesso bizzarri, e talvolta davvero privi di qualunque riconoscibile filo di continuità che non fosse, al più, l’esito della specifica fase in cui ciascuno aveva incontrato il Partito radicale e Pannella, e ne aveva fatto propri priorità, linguaggio, alleanze e obiettivi del momento. Spesso, purtroppo, pure le pestilenziali Celtiques.

Del “mio” partito liberalradicale, laico, antitotalitario, federalista europeo, il più credibile continuatore nella triste scena politica italiana attuale mi sembra essere oggi +Europa. Con un limite comune al Partito radicale di Pannella: quello di non puntare abbastanza alla crescita non di una comunità, ma di una cultura politica coerente e capace di motivare ed esprimere un gruppo dirigente, che dovrebbe necessariamente divenire molto più ampio, organizzato e strutturato per poter rispondere alla sfida populista e neo-totalitaria dei nostri giorni. Tanto più in assenza, oggi, di leader carismatici debordanti, e qualunque cosa si possa pensare, a questo proposito, del nostro comune passato.

Metto tutte le carte in tavola, non sarà una botta di ottimismo. Moderatismo, centrismo e terzismo, alleanze con residui o spezzoni di disparate esperienze, democristiani, ciellini e proibizionisti, populisti soft ed europeisti intergovernativi, possono forse sembrare vie d’uscita apparentemente facili, perfino obbligate in quanto imposte dalle leggi elettorali, ma sono inesorabilmente interne a una politica ridotta a tattica elettorale e ad autoreferenzialità. Del tutto insufficienti, credo, a ricreare, se non entusiasmi, almeno qualche interesse per una politica da decenni privata non solo di “bellezza”, ma anche di ogni minima decenza.

Proprio nel 1974, in piena battaglia referendaria sul divorzio, e a tratti anche in altre limitate occasioni successive, Pannella sembrò per qualche momento voler ricostruire i ponti con la sua e nostra matrice del mondo (del Mondo pannunziano e del mondo in senso lato) liberalradicale. È da lì, credo, che ogni ricostruzione, se fosse possibile, dovrebbe ripartire.

 



[1] Da “Autobiografia” di Umberto Saba. “Spece” non è un errore ortografico, ma una sua licenza poetica per ragioni metriche.

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