Obama - Islam, svolta simbolica in attesa dei fatti


A causa di un errore nella selezione del file da trasmettere al giornale da parte dell’autore, l’editoriale pubblicato dal Secolo XIX il 5 giugno 2009 comprendeva alcune varianti di lavoro che lo rendevano diverso da quel che avrebbe dovuto risultare nella sua versione definitiva, così come riprodotta qui di seguito.


Quando il presidente George Bush Jr. proclamò la necessità di una “crociata” contro il terrorismo, è verosimile che pensasse all’uso metaforico della parola, comune nei paesi occidentali (la “crociata” contro la droga, contro il crimine, contro l’aids, ecc.): per lui le crociate storiche non erano probabilmente che un vago ricordo liceale o cinematografico. La fatuità della politica spettacolo contemporanea può però avere conseguenze devastanti nell’impatto con l’immaginario di un pubblico diverso dal proprio. In gran parte del mondo islamico le crociate sono proprio le crociate storiche, quelle della cristianità medievale che voleva cacciare i musulmani da Gerusalemme. Immediato il cortocircuito, a tutto vantaggio dell’estremismo jihadista: Bush non avrebbe potuto fare di meglio, se avesse voluto imprimere a fondo nelle menti di milioni di musulmani l’equazione fra l’imperialismo religioso del passato e l’attualità, inclusa la stessa difesa del diritto ad esistere dello Stato di Israele. Così come non avrebbe potuto meglio conferire qualche plausibilità all’estremismo fondamentalista agli occhi degli incerti in quella parte del mondo. Per chi già era predisposto a vedere nell’Occidente il “grande Satana”, l’uso del termine “crociata” non era una gaffe, era una confessione.

Ricomporre i cocci era impossibile per Bush, ma sarebbe ora impresa improba per chiunque, anche per chi, come Barack Hussein Obama, sia dotato del massimo possibile di credibilità mediatica anche agli occhi di chi ha sempre visto negli Usa e nell’odierno Occidente nient’altro che gli eredi dei vecchi imperialismi coloniali.

Nel suo discorso di ieri al Cairo, Obama non avrebbe potuto marcare di più le distanze dalla rozzezza non solo comunicativa del predecessore.

Nelle scorse settimane, alcune decisioni del nuovo Presidente hanno deluso chi aveva riposto maggior fiducia in un cambiamento immediato e radicale. Il fatto è che cacciarsi nei pasticci è molto più facile che uscirne. E lo è tanto più per chi ha ruolo e responsabilità di grande potenza. Spagna e Italia hanno potuto permettersi di andarsene dall’Iraq subito o poco dopo un mutamento di indirizzo politico; e alla fine se ne vanno perfino i britannici. Hanno potuto farlo anche perché sapevano che non sarebbe successo quasi niente. Chi governa oggi l’America è consapevole che cacciarsi nel pantano iracheno è stata una follia, ma sa anche che andarsene di punto in bianco, come hanno potuto fare gli alleati, potrebbe provocare una catastrofe anche maggiore, probabilmente una guerra civile, che si concluderebbe forse con l’egemonia schiacciante dell’Iran sul Golfo Persico e sulle sue risorse energetiche (esattamente l’incubo per esorcizzare il quale l’Occidente si era risolto addirittura a foraggiare per un decennio le armate di Saddam). E sa, anche meglio, che, se è vero che l’inutile avventura irachena ha compromesso la reputazione e la stessa credibilità militare degli Usa, riconsegnare l’Afghanistan ai talebani o vedere un Pakistan nucleare finire nelle mani di un governo apertamente fondamentalista sarebbe una catastrofe di proporzioni colossali. Sa che Abu Ghraib pesa come una sconfitta peggiore dell’11 settembre, ma sa anche che ora non è facile trovare vie d’uscita da quell’incubo giuridico ed etico-politico.

Sa, soprattutto, che è imperativo ristabilire una relazione sostenibile con quella larga ed eterogenea fetta dell’umanità che si identifica in varia misura con la religione musulmana. Ma in che modo una democrazia liberale e individualistica, che ha un suo pilastro fondamentale nella rigorosa e radicale separazione fra potere politico e confessioni religiose, può rivolgersi ai fedeli di una religione anziché a soggetti portatori di interessi, principi o valori, magari anche contrapposti ai propri, ma pur sempre di ordine politico e mondano?

Bush, che in sostanza non credeva nei principi della settecentesca e illuministica Godless Constitution degli Usa, parlava più da capo cristiano che da Presidente. Ma, per rivolgersi a un soggetto come “l’islam”, anche Obama non poteva che interpretare il ruolo di un cristiano, sia pure molto diverso. Ha fatto appello a valori condivisi, enunciati in modo inevitabilmente vago. Ha giocato la carta della difficile conciliabilità fra tradizione e modernità, ha rimarcato l’importanza della libertà religiosa, ma eludendo il tema del possibile contrasto fra l’esercizio di quella libertà e le imposizioni familiari o comunitariste. Ha ripudiato in modo plateale le scelte politiche di Bush, a cominciare dalla guerra irachena, non indispensabile (a war of choice) a differenza dell’Afghanistan, e ogni ordine mondiale basato sull’egemonia di una sola nazione; ha richiamato alle loro responsabilità gli Stati arabi, ma non ha potuto che accennare vagamente alle richieste di democratizzazione, sottolineando che nessun sistema di governo può essere imposto a una nazione dall’esterno.

Il discorso di uno statista responsabile, consapevole del disastro, dei nuovi limiti della potenza americana e del peso della storia, remota e recentissima. Difficile, forse anche per la grande maggioranza dei musulmani cui il discorso era indirizzato, disconoscere la buona volontà del Presidente nella ricerca di “un nuovo inizio”.

Nell’attuale situazione di debolezza, il suggerimento, rivolto da Marc Lynch su Foreign Affairs alla leadership americana, di privilegiare come interlocutrice la nascente opinione pubblica araba e islamica liberale, andrebbe forse più realisticamente rivolto alla distratta società civile occidentale.

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