Circolo della Cultura e delle Arti

Sezione Scienze Morali

Trieste 27 marzo 2002

 

 

La cultura della destra nell’Italia del ’900

 

Intervento di Giulio Ercolessi

 

Io non parlo a nome dell’opposizione. Sono piuttosto uno dei molti delusi dal nuovo sistema politico che è nato dalle ceneri della cosiddetta Prima Repubblica. E lo sono perché, nel momento in cui si era tenuto il primo referendum Segni, quello da cui emerse un sistema elettorale tendenzialmente bipolare, le unanime previsioni di tutti, favorevoli, contrari e indifferenti al referendum, erano che il risultato sarebbe stato un nuovo sistema politico che invece non ha visto la luce. Un sistema nel quale vi sarebbe stato sostanzialmente spazio soltanto, come in tutti gli altri paesi occidentali e indipendentemente dalle etichette, per una forza politica liberale di destra ed una liberale di sinistra. Unanime, se ricordate, era la previsione che, introdotto il bipolarismo nel nostro sistema, sarebbero spariti il partito di Fini e il partito di Bertinotti. Questa è l’ennesima dimostrazione che nell’azione politica le conseguenze inintenzionali prevalgono spesso sugli intenti perseguiti: se ci sono due forze politiche il cui ruolo è stato rafforzato dall’introduzione del bipolarismo italiano, sono proprio questi due partiti, che nel corso della Prima Repubblica erano stati forze estreme e sostanzialmente marginali.


Lo stesso titolo di questa serata è in qualche modo ottimistico, perché presuppone una risposta positiva a una domanda preliminare: c’è ancora un rapporto fra la politica e le culture politiche? Penso che sia lecito sempre più, e soprattutto in Italia, dubitare che questo sia vero e credo che sbaglino coloro che parlano a questo proposito di “americanizzazione” della politica e dell’informazione italiana. In realtà l’italianizzazione della politica e dell’informazione è qualcosa a cui in America non si è ancora arrivati. Oggi chiunque con le tv satellitari può guardare ogni giorno i dibattiti delle principali catene televisive americane. Ebbene, io lì (o in altri paesi occidentali) non ho mai visto che a dibattere i temi della attualità politica interna e internazionale siano chiamati calciatori, ballarine, soubrettes, attori e attrici privi di qualunque competenza, o anche solo interesse specifico, nella vita civile del paese. A dire la verità non guardo talk shows politici delle televisioni italiane dal 1992, ma, poiché seguo i telegiornali, anche quelli italiani, credo di essere abbastanza informato per rilevare questa.


Credo che siamo arrivati a osservare nel nostro paese quello che il politologo americano Anthony Downs, fin dagli anni Sessanta, aveva creduto di poter dire del dibattito politico degli Stati Uniti. Ma lo stiamo verificando in Italia all’ennesima potenza. Diceva Downs che i partiti non mirano alla vittoria nelle elezioni per realizzare i propri programmi elettorali, ma elaborano i propri programmi elettorali per vincere le elezioni. E un altro politologo, parlando della situazione dei paesi dell’Europa centrale, Otto Kirchheimer, diceva, più o meno nello stesso periodo, che ormai i partiti, tutti i partiti (da noi potremmo dire soprattutto le coalizioni) non sono più come un tempo portatori, anche, di proposte culturali. Ma sono, come li definiva lui, dei catch-all parties, cioè dei partiti piglia-tutto. Da noi, oggi, potremmo dire che si tratta di catch-all coalitions, di coalizioni che si rivolgono - coltivando grandi elementi di ambiguità e consentendosi così strizzatine d’occhio un po’ in tutte le direzioni - un po’ a tutti i settori dell’elettorato, per poter guadagnare consensi in una società ormai omogenea.


Uno dei paradossi del caso italiano è proprio questo: dicono i sociologi che si occupano di misurare i valori maggiormente diffusi che l’Italia ormai è diventato un paese scarsamente polarizzato. Se voi fate delle interviste sui temi dell’attualità, sugli orientamenti, sui valori degli italiani che votano a destra, a sinistra e al centro, non registrerete delle grandi, enormi, insormontabili differenze, come invece si sarebbe tentati di ritenere guardando i comportamenti della classe politica - di questa classe politica di infimo livello, a mio avviso, in tutti gli schieramenti, che ci siamo dati. Questa omogeneità sostanziale dei comportamenti si infrange solo su una questione in Italia in questi anni, e cioè sul giudizio che si dà sulla figura politica e personale del Presidente del Consiglio. Su questo il Paese è spaccato più o meno a metà. Et pour cause. Di conseguenza, il paese è spaccato a metà come lo sono i tifosi di squadre di calcio contrapposte. Su quasi tutte le altre questioni concrete c’è invece una tendenziale omogeneità di valori, di sentimenti e di opinioni che non giustificherebbe altrimenti l’asprezza dello scontro politico.


Questa classe politica è molto diversa dalla classe politica che esisteva in questo paese quando eravamo adolescenti. In quel periodo l’attività politica poteva ancora essere vista anche come un’attività intellettuale. C’erano degli intellettuali alla guida non solo della sinistra comunista, ma anche del partito socialista, dei piccoli partiti laici di centro, guidati da uomini come Ugo La Malfa, Giuseppe Saragat, o come quel Giovanni Malagodi che magari nella nostra adolescenza il prof. Trebbi ed io potevamo contestare per il comportamento dittatoriale nei rapporti interni di partito, ma che erano sicuramente personaggi di grande rilievo anche culturale. Personaggi che non avevano assolutamente nulla a che vedere con i followers, i non-leader che guidano i partiti politici attuali, i quali (salvo che per quel che serve agli interessi della consorteria di appartenenza) tendono il più delle volte a orientare le proprie opinioni soltanto sulla base dei sondaggi di opinione. Followers, appunto, non leader politici. In questo senso la politica rischia di ridursi a marketing e le alleanze rischiano di essere casualmente create dalle occasioni. Per esempio, quando crollò nel 1992-93 il vecchio sistema politico, Silvio Berlusconi diede a un partito che aveva fino ad allora rappresentato la destra radicale, il Movimento Sociale, un’occasione di riciclaggio politico sulla base di quello che di nuovo richiedeva il mercato politico. Questo partito trovò irresistibile l’offerta e trovò irresistibile la coalizione.


Ma anche dal libro di Veneziani emerge questa profonda eterogeneità che riguarda oggi la destra. In realtà destra e sinistra sono concetti di relazione, che ha senso, secondo me, definire solo all’interno di un sistema politico dato. C’è un continuum destra-sinistra in ogni sistema politico, e in questo senso l’Italia è sempre stata governata dalla destra, perché è sempre stata governata da coalizioni che avevano alla loro destra un partito come il Movimento Sociale, un partito che rappresentava il 6% dell'elettorato e che in una sola occasione aveva superato l’8%, e alla loro sinistra, in genere, un’opposizione che aveva come minimo un quarto dei voti. Il baricentro delle coalizioni di maggioranza, quindi, era alla destra e non alla sinistra del centro. Eppure quelle coalizioni non si definivano di destra, perché quella che si definiva destra in tutti quegli anni nella politica e nella cultura italiana era qualcosa di profondamente diverso da quel che si definiva e si definisce destra altrove. In Francia, per esempio, dove si è sempre chiamato droite tutto quello che sta alla destra del centro, era ritenuta di destra il ministro della sanità di Giscard d'Estaing, Simone Veil (successivamente presidente del Parlamento Europeo), che introdusse agli inizi degli anni Settanta la legge sull’aborto, interpretando un ruolo opposto a quello di una destra definita sulla base dei legami con la tradizione.

Qui c’è un’anomalia tutta italiana. Troppo spesso in questi anni per destra si è inteso in Italia qualcosa che, almeno indirettamente, almeno in forma estenuata, avesse un rapporto con il fascismo quanto meno di non totale rigetto; e per troppi anni per sinistra si è inteso qualcosa che avesse a che fare in qualche modo, almeno in qualche forma estenuata, con il comunismo. Ebbene, questo era proprio quello che il bipolarismo avrebbe dovuto spazzar via.

(Peraltro, non credo, con ciò, che le due posizioni siano proprio simmetriche, almeno per coloro che sono nati dopo la seconda guerra mondiale, perché mentre il comunismo, anche nella visione di uno dei suoi critici più radicali come per esempio François Furet, per molti suoi sostenitori che si rifiutavano di vedervi un sistema di dominazione totalitaria, poteva essere stato soprattutto un’illusione, la vicenda del fascismo in Italia, per chi fosse nato dopo la guerra era invece già pienamente intelligibile).

Oggi si dicono tutti liberali. Io che, liberale e liberalradicale da sempre, ho vissuto almeno metà della mia vita sentendomi dire che professavo idee consegnate alla pattumiera della storia, dovrei esserne felicissimo. E mi sento invece, da questo punto di vista, più isolato che mai e più che mai non rappresentato nel sistema politico. È con questo problema che la destra e la sinistra italiana dovrebbero fare i conti. Il liberalismo è la massimizzazione delle libertà possibili, che si realizza attraverso lo strumento della divisione dei poteri. La concentrazione di poteri che rappresenta oggi l’attuale maggioranza, di poteri mediatici, oltre che economici e politici, non ha riscontro in nessun paese dell’Occidente sviluppato. E il problema non è soltanto contingente, perché è un problema che evidenzia la mancata riflessione da parte degli italiani su tutto questo, il grado zero della cultura politica liberale diffusa.

Ho sentito addirittura il Presidente del Consiglio dire che era indice di giacobinismo il fatto che i magistrati fossero indipendenti dal potere politico. Qui non si tratta di mancata conoscenza della storia del diritto costituzionale: qui il problema è la conoscenza dell’educazione civica e della storia che dovrebbe essere garantita dalla frequentazione della scuola dell’obbligo. Perché l’idea che vi debba essere una subordinazione dei magistrati al potere politico è una tipica idea giacobina. Era l’idea di Togliatti alla Costituente, che si gloriava di essere un continuatore di quella tradizione politica, sulla scia degli interpreti della rivoluzione francese più apprezzati dalla cultura comunista, come Albert Mathiez. Era Togliatti alla Costituente che non capiva perché mai l’assemblea legislativa, perché mai il Parlamento eletto dal popolo non dovesse essere onnipotente, in nome del principio dell’unità del potere statale, il principio proprio del sistema costituzionale dei paesi del blocco sovietico, visto come espressione suprema della democrazia, e contrapposto al principio della divisione dei poteri tipico della democrazia borghese.

Tutto questo incide sulla stessa identità etico-politica dell’Italia, e quindi sul problema dell’identità e dell’appartenenza nazionale, su cui tanto insiste la cultura politica della destra. Perché siamo tutti felici di essere italiani dal punto di vista del patrimonio storico, letterario, artistico, gastronomico e magari anche dal punto di vista del clima. Però quel che conferisce a un paese un’identità propria e peculiare, distinta da quella degli altri, sono innanzitutto e prima di tutto i valori etico-politici che esprimono le loro istituzioni. Se nella prima guerra mondiale gli europei erano disposti a farsi squartare gli uni contro gli altri pur di affermare i valori della propria identità nazionale, non era soltanto per i crauti o per il camembert: era perché ritenevano che la loro stessa vita individuale non potesse avere lo stesso significato al di fuori dal contesto di valori civili incarnati dalla nazione. Valori che potevano poi essere declinati in vari modi: poteva essere il parlamentarismo britannico o l’imperialismo, la grandeur francese o i valori sacri del 1789, poteva essere, nel caso dell’Italia, il Risorgimento nella sua accezione laica e democratica o poteva esserlo nella sua versione crispina. Anche oggi, se voi vi chiedete quali sono i valori etico-politici che distinguono la nostra identità rispetto a quella degli altri europei, certo ne potrete trovare e indicare. Se guardate soltanto l’Europa ne troverete a bizzeffe fra l’Italia e la Francia o fra la Francia e la Germania. Ma troverete differenze enormi anche cercandole all’interno della stessa Italia, tra il sud e il nord del paese.


Provate però a porre la stessa domanda a un islamico, provate a porla a un cittadino di un paese dell’Estremo Oriente. Questi vi diranno subito una cosa: che quel che caratterizza l’identità più profonda, ormai la tradizione politica dell’intero Occidente liberale, perfettamente evidente se considerato rispetto al resto del pianeta, sono le eccessive, sciagurate, disgregatrici libertà individuali. Questa è ormai la radice della nostra comune identità. Il liberalismo ha una vocazione universalistica, ma essendo una dottrina realistica non si illude di essere universale. E la consapevolezza di questa identità, davvero profonda, manca alla destra, soprattutto, ma in buona parte manca anche alla sinistra italiana.


La nostra stessa identità nazionale e il patriottismo italiano fin dalla sua fondazione risorgimentale nascono precisamente dalla consapevolezza dell’arretratezza dell’Italia dell’800 rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale: essi erano visti come l’unico possibile parametro di riferimento di valori etico-politici per l’Italia. Non citerò il Leopardi preteso progressista, contro cui giustamente ironizzava anni fa Veneziani, ma quello, élitista ante litteram, del 1824, del Discorso sullo stato presente dei costumi degli italiani, che lamentava «la decisa e visibile superiorità presente delle nazioni settentrionali sulle meridionali» nel loro rapporto con la modernità. Uno stato di inferiorità che l’Italia avrebbe dovuto superare, che molti italiani tentarono di superare, proprio attraverso la costruzione dello Stato unitario, attraverso quello che non a caso si è chiamato non mera unificazione ma Risorgimento. E Leopardi individuava questa carenza dell’Italia nella mancanza di quella che egli chiamava una “società stretta”, oggi diremmo un establishment. L’Italia la vedeva, come avrebbe poi detto Ortega della Spagna, come un paese invertebrato, un paese privo della classe dirigente, un paese privo di quella rete di rapporti nella sua classe dirigente, di strategie di necessaria conquista della stima reciproca, di necessario riconoscimento mutuo. Di quei rapporti che alla fin fine anche nella più aperta delle società sono sempre anche rapporti di cooptazione, che rendono tale un establishment nazionale. Questo è quello che disperatamente manca in Italia. Ed è per questo che nascono quei fenomeni di terribile metastasi civile cui stiamo assistendo.


Un’ultima cosa vorrei dire su questo. Credo che sia arrivato il tempo di recuperare una vecchia formula crociana, quella che voleva il liberalismo come pre-partito, come contenitore all’interno del quale soltanto ha senso ormai parlare di una destra e di una sinistra. Era anacronistico formulare questa idea in Italia alla fine della seconda guerra mondiale, non dovrebbe esserlo oggi, se non per la contingente (ma anche abbastanza casuale) configurazione del sistema politico italiano, determinata dall'anomalia berlusconiana.


In questo senso devo dire due cose: ho sentito più volte Veneziani, quando qualcuno rinfacciava il fascismo alla cultura della destra, dire: “Ma non possiamo andare avanti in eterno a rinfacciare voi a noi i lager e noi a voi i gulag”. Invece io dico sì, bisognerebbe che sia gli eredi del comunismo sia gli eredi del fascismo facessero fino in fondo i conti con l’eredità totalitaria del XX secolo. Credo che senza fare fino in fondo questi conti, avendo in qualche modo una visione edulcorata, in qualche modo perdonistica del proprio passato, non si possa costruire un futuro degno di un paese dell’Europa civile e democratica. Il fascismo è stato una rottura nella stessa identità dell’Italia post-unitaria. Io non posso, come liberale che si richiama a quella eredità risorgimentale che voleva recuperare all’Italia un diritto di cittadinanza nell’Occidente liberale, considerare l’Italia fascista come la mia la patria in un momento storico diverso, e non posso né intendo quindi recuperare alcuna "memoria condivisa" con gli eredi non pentiti dei totalitarismi novecenteschi: l'Italia fascista è per me piuttosto un paese straniero e nemico, che alla mia patria, cioè all'Occidente liberale e democratico, ha mosso una guerra di aggressione, fortunatamente conclusasi non solo con la sconfitta, ma con il debellamento e con l'annichilimento del regime aggressore. Il ripensamento in corso, storiografico, mediatico e politico, che ha per oggetto in questi anni il fascismo è un’arma a doppio taglio, perché, dalla acquisita consapevolezza del consenso che circondava il regime fascista si possono trarre due conclusioni del tutto diverse. Si suggerisce con insistenza che, se il consenso c’era ed era così vasto, il fascismo non doveva poi essere tanto orribile. Ma si potrebbe anche sostenere, all’opposto, che, se gli italiani sono stati in misura così massiccia sostenitori del fascismo, c’è qualcosa di bacato nell’identità italiana (il fascismo “autobiografia della nazione” di Gobetti). E questo problema si pone soprattutto per la cultura liberale. Per un liberale il fascismo è stato prima di tutto, anche senza considerare il cinismo e gli errori di calcolo che determinarono l’entrata in guerra, o l’abiezione senza fondo delle leggi di discriminazione razziale, il regime che ha distrutto la democrazia liberale in Italia. E questo nessun revisionismo potrà mai modificarlo. Il nemico di strada del fascismo era il comunismo, ma quello che il fascismo distrusse nelle istituzioni italiane fu la democrazia liberale. E allora non fare fino in fondo i conti con questa eredità significa omettere, significa in qualche modo rimuovere, un’eredità che in Italia è stata più determinante, più caratterizzante, e quindi più pesante, di quella del comunismo.
          


Ancora un’ultimissima cosa vorrei dire sul retaggio delle tradizioni religiose, assunto come elemento forte dell’identità nazionale, nella prospettiva comunitaristica cara a Veneziani. Io, per esempio, non sono un cattolico romano, prima di tutto perché non sono un credente e in secondo luogo perché, se lo fossi, sarei per molte ragioni un protestante. Bene, una visione comunitaristica che fondi in qualche modo l’identità nazionale anche e in larga misura sul retaggio della tradizione religiosa mi escluderebbe dall’appartenenza a questa vagheggiata comunità coesa, cara ai teorici di una ritrovata identità nazionale forte, fondata sulla tradizione religiosa del cattolicesimo controriformista, piuttosto che, per esempio, sull’eredità umanistica, rinascimentale, illuministica, laica e liberale di un paese occidentale e ormai secolarizzato come il nostro. È chiaro che, quanto più si alza la soglia del minimo comun denominatore richiesto per riconoscersi in un'identità comune, tanto più cresce il numero di chi ne viene escluso. I non credenti, chi si sente critico ed estraneo nei confronti della cultura cattolica, e i valdesi e gli ebrei, la cui emancipazione non a caso segnò nel 1848 l’inizio del Risorgimento italiano, dovrebbero forse tornare ad essere italiani a minor titolo dei cattolici romani?


I testi completi di questo dibattito sono reperibili nel sito del Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste.

 

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