In memoriam, prof. Lucio Ercolessi (1926 - 2019)
Il prof.
Lucio Ercolessi,
medico
pneumologo, Libero Docente in Anatomia Umana Normale, imprenditore
sanitario, si è spento il 20 novembre 2019. Di seguito la
commemorazione
pronunciata
dal figlio Giulio nel funerale laico tenutosi il 29 novembre
successivo, prima della dispersione delle ceneri nel mare del golfo di Trieste, in adempimento della sua volontà.
Se
mio papà se ne fosse
andato soltanto sei anni fa, quando aveva 86 anni, si sarebbe potuto
dire che,
nella nostra epoca, può capitare qualcosa che in ogni epoca
precedente sarebbe
stata considerata assurda: che oggi può accadere di morire
prematuramente anche a
86 anni.
Fino
a quell’età la
vecchiaia lo aveva largamente risparmiato. A questo riguardo usatogli
dalla
natura aveva probabilmente finito per abituarsi, e, forse, noi tutti
con lui.
Tanto più sembrava che gli apparisse, e anche a molti di noi
è forse sembrato, sorprendente,
inatteso e quasi inammissibile il declino fisico di questi ultimissimi
anni e
mesi.
Perfino
la scomparsa
improvvisa e del tutto inaspettata di mio fratello, quindici anni fa,
che lo
aveva certamente cambiato, non ne aveva spento una volontà
di vivere fino in
fondo ogni momento della propria vita, con
un’intensità, con una convinzione,
con una persuasione refrattaria a qualunque retorica –
perfino alle retoriche,
nel senso corrente del termine, che si sarebbero potute ritenere in
sintonia
con la sua visione del mondo – e con un ottimismo vitalistico
capace di vincere
ogni illusione e ogni delusione, un ottimismo e un entusiasmo che io
credo di
non avere mai vissuto in quella misura, neppure da adolescente.
Non
così lui. Benché
privo di soverchie illusioni sulla natura degli uomini, e incredulo
sulla
capacità degli individui di poter influire sulla storia nel
suo farsi, il suo
ottimismo e la sua vitalità avevano trovato radici e
motivato un impegno
intenso, e lungo una vita intera, nella professione, nel lavoro, nella
famiglia,
e anche nelle passioni del tempo libero.
Quando
ancora insegnava
all’Università, la sua giornata di lavoro iniziava
ogni giorno uscendo di casa
prima delle 7 e mezzo e terminava rientrando dopo le 7 e mezzo di sera.
Di
solito teneva lezione all’Università nel primo
orario disponibile (e tenete
conto che non esisteva ancora la facoltà di Medicina a
Udine: la cosa non sarà
stata troppo gradita, immagino, agli studenti friulani pendolari):
perché, dopo
l’Università, nei diversi periodi,
c’erano l’INAM, il Consorzio antitubercolare
della Provincia, nei primi anni il suo ambulatorio privato, impegni
duraturi o
saltuari in medicina del lavoro e dello sport. Il pranzo mai a casa ma
sempre a
Aurisina, nel sanatorio, poi casa di cura, che è stato il
suo primo luogo di
lavoro, all’inizio a fianco dello “zio”
Adolfo che di quel sanatorio era stato il
fondatore assieme ad altri medici triestini. Adolfo in
realtà era il cugino
primo di suo padre Umberto, mio nonno, ma per lui era talmente uno zio
che per
decenni io non ho avuto dubbi che si trattasse del fratello di mio
nonno.
Fin
dall’inizio, alla
professione di medico si era aggiunta quella di imprenditore in campo
sanitario, accanto allo “zio” e a un gruppo di
colleghi con i quali, e con i
cui figli e discendenti, ha contribuito a sviluppare, a creare o a
fondare
aziende destinate a restare e a consolidarsi attraverso i decenni:
oltre alla
Pineta del Carso, il COF di Lanzo d’Intelvi in provincia di
Como, il coraggioso
investimento a Eboli nel 1957 che è oggi il Campolongo
Hospital, il Policlinico
San Marco di Mestre. Ha rivestito varie cariche anche
nell’Associazione
Italiana Ospedalità Privata, ospedalità privata
nel cui ruolo, come pilastro
fondamentale e
indispensabile di un sistema sanitario universale ma anche
economicamente sostenibile,
fortemente credeva.
Eppure,
a dispetto
dell’evidenza, non avrebbe mai pensato di autodefinirsi,
anche, imprenditore.
Avesse avuto riferimenti culturali o uso di retoriche diversi da quelli
che
erano i suoi, avrebbe certamente preferito il titolo di
“operaio nella vigna”
delle imprese di cui era fra gli amministratori: affermato
professionista,
docente universitario, e amministratore amministratore delegato o
presidente
nel tempo di diverse società per azioni anche di dimensioni
non sempre proprio
trascurabili, non ha mai voluto considerarsi parte della classe dirigente del
paese. E
non per disprezzo, ma per quel radicato scetticismo nei confronti della
vita
pubblica – e non solo della vita politica – che
è stato fin dagli anni della
ricostruzione e della rinascita economica dell’Italia,
cioè negli anni della
sua formazione professionale, la paradossale cifra comune di tanti
intraprendenti protagonisti di quella stagione.
Lontanissimo
dalla
politica attiva, in politica mio papà non aveva certo quel
che si dice
un’inclinazione “progressista”, era
piuttosto un conservatore moderato, segnato
in gioventù, come tanti nostri concittadini, dalle tragedie
e dagli scontri che
hanno contrassegnato il Novecento a Trieste. Il suo scetticismo civile
non
faceva eccezioni neppure nei confronti del mio passato impegno politico
liberalradicale, che ha sempre rispettato, ma che credo trovasse un
po’
indecifrabile, di incerta e problematica classificazione, vagamente
esotico anche ai suoi occhi come a quelli della grande maggioranza
degli italiani. Quanto a
se
stesso, del resto, non aveva neppure lontanamente preso in
considerazione le
offerte di candidatura politica che qualche anno fa non gli erano
mancate. Considerava
un’ipotesi del genere alla stregua di una facezia.
Era
però anche orgoglioso
di non avere neppure preso in considerazione le velate e ripetute
raccomandazioni, ricevute dalla politica quando lavorava al Consorzio
antitubercolare, di non enfatizzare la scoperta, credo già
negli anni ’70, dei
primi casi di tumore alla pleura causati dall’esposizione
professionale
all’amianto.
Moderato
nelle sue
simpatie politiche, non era però affatto, come tanti oggi, in
questa stagione di
tramonto dell’Occidente e di ripudio della nostra
modernità, un
tradizionalista, un passatista, o un nostalgico del buon tempo antico e
della
sua civiltà premoderna. Al contrario, al valore della
modernità, alle
potenzialità del progresso scientifico e tecnologico, non
solo in campo medico,
credeva profondamente e ne era entusiasta. E non era soltanto una
necessità
imprenditoriale. In questo, era anche lui un figlio della
modernità occidentale,
che io considero la mia patria. Aveva imparato verso gli
ottant’anni a usare
quotidianamente il computer e Internet, come perfino qualche mio quasi
coetaneo
si ostina ancor oggi a rifiutarsi di fare.
Ed
era anche il figlio
di una città che, nella sua classe dirigente italiana, era
stata, prima dei
rimescolamenti del dopoguerra, tranquillamente, pacificamente,
rispettosamente,
ma anche molto precocemente e profondamente, secolarizzata. Gli piaceva
raccontare
che dopo il funerale di mia nonna, il prete, suo buon conoscente, che
lo aveva
celebrato, perché così si usava, ma senza anche
dire la messa, gli
aveva detto: “Professor,
mi e lei
adeso dovemo propio vederse”. E diceva di avergli risposto: “La gà
bisogno, cossa no la sta ben?”. Forse non sarà andata proprio
così, ma quell’aneddoto rappresentava
piuttosto bene il suo punto di vista.
Per
molto tempo è stato
difficile per me capire da dove venisse questo mix di moderato
conservatorismo
civile e di entusiasmo illuministico per la modernità – anche in qualcuno dei suoi aspetti corrosivi – che
difficilmente
avrebbe potuto assorbire nella sua famiglia di origine o al liceo
Petrarca
frequentato nei primi anni ’40: una visione del mondo che io
credevo essenzialmente
plasmata sulla base dell’etica medica del tempo della sua
formazione. La chiave
per una spiegazione meno superficiale, che lui non mi aveva mai
esplicitata, mi
è stata forse data
da un mio amico studioso della storia delle università
italiane nel Novecento.
In quella facoltà di Medicina
dell’Università di Padova, frequentata da mio
papà come dalla gran parte dei medici triestini fino alla
fondazione di una facoltà
di Medicina nella nostra Università, sarebbe
sorprendentemente sopravvissuta fino
agli anni ’40 e ’50 anche una scuola di indirizzo
prettamente positivistico, passata
indenne attraverso i decenni dell’egemonia di orientamenti
culturali e
filosofici affatto differenti.
L’assorbimento
di questa
matrice positivista, che oggi, in tempi di rinascente oscurantismo
antiscientifico e di pretese medicine tradizionali o alternative,
qualcuno
definirebbe sprezzantemente “scientista”,
dà ragione tanto di un certo suo
scetticismo antropologico quanto della sua personalità
profondamente
antiretorica e della profonda serietà e concretezza cui era
ispirata la sua
visione del mondo, totalmente scevra da illusioni ma consapevole
all’estremo
dei propri compiti, e della propria professione / vocazione.
La
professione di
medico, l’insegnamento universitario – da
assistente fu uno dei primi quattro o
cinque docenti del primo anno accademico della Facoltà di
Medicina
dell’Università di Trieste alla sua fondazione nel
1965 – e, sempre più nel
corso degli anni, l’impegno per la crescita e lo sviluppo
delle case di cura, sono
stati per mio papà una ragione di vita fino
all’ultimo. È stato solo con grande
dolore che, di fronte all’evidenza, ha preso
l’iniziativa di dimettersi
dall’ultima carica sociale che ancora rivestiva, proprio e
solo negli ultimi
giorni della sua vita, quando ormai era ricoverato in terapia intensiva
nell’Unità Coronarica di Cattinara. Ma solo poche
settimane prima aveva tenuto
a partecipare, da vicepresidente ancora in carica, all’ultima
assemblea sociale
della storia della Pineta del Carso, quella in cui è stata
ratificata la sua fusione
con la Salus.
Il
matrimonio dei miei
genitori ha avuto la durata, oggi quasi mirabolante, di 68 anni. Sono
stati
assieme fino all’ultimo, lo scorso mercoledì 20,
quando da Cattinara, ormai
senza più speranza di guarigione, era rientrato –
da ricoverato, come negli
ultimi mesi – a Pineta, in quella che è stata la
sua seconda casa per
settant’anni.
Scherzando
ma forse non
troppo si diceva qualche volta in famiglia che uno dei segreti di
questa unione
di così rara solidità e durata era stato anche il
suo assorbente impegno nel
lavoro: quando per decenni si esce di casa alle 7 e mezzo e si rientra
alle 7 e
mezzo di sera ci si trova un po’ come in quelle unioni a
distanza in cui si
desidera così tanto rivedersi e ritrovarsi che non
c’è spazio per il logorio
della routine.
In
realtà il tempo
libero è sempre stato per mio papà altrettanto
intenso quanto quello di lavoro.
Dopo una cena veloce, quasi sempre, per anni, c’era posto per
la serata di
bridge, con la coppia degli amici del lunedì, di quelli del
martedì, del
mercoledì, del giovedì. E il venerdì,
di primo pomeriggio, la partenza per il
weekend, in barca a vela in estate e autunno e a sciare in inverno e
primavera;
qualche viaggio in macchina con amici, spesso in Toscana, nei weekend
dei brevi
periodi di intermezzo. In agosto la crociera in Dalmazia, sempre la
stessa per 47
anni di fila, ma sempre attesa e vissuta con lo stesso entusiasmo.
C’è
un episodio che
dipinge perfettamente la sua sete inesausta di sfruttare
così intensamente ogni
momento della vita, anche nel tempo libero. Che cosa fa una coppia di
coniugi ottantenni o quasi che si sveglia a Cortina di sabato sotto una
nevicata che
impedisce di sciare? Una passeggiata o un po’ di shopping, si
dirà. No. Mio papà,
che, all’opposto di me, amava molto guidare, decise che
sarebbero partiti quel
sabato da Cortina per visitare una mostra: a Ferrara. Per ritornare poi
la sera
stessa a Cortina, poter sciare così tutta la domenica, e
rientrare come sempre a
Trieste la sera, fermandosi a cena, come sempre, lungo la strada.
L’invecchiamento
lo ha
colpito molto tardi nella vita, ma, figlio fino in fondo anche in
questo della
nostra modernità, non ci si è per nulla adattato
docilmente o senza soffrirne.
Quando i propri amici più cari sono tutti o quasi tutti
coetanei, e compagni di
scuola o di università, e si vive in buona salute e a lungo,
almeno nel tempo
libero si finisce per restare sempre più soli,
perché gli amici scompaiono, in
un modo o nell’altro, prima: così sono dapprima
finite le serate di bridge,
sostituite malinconicamente dalla televisione. A dire il vero
malinconicamente lo dico
io, ma
mio papà è stato, letteralmente fino al suo
ultimo giorno, un telespettatore
accanito e convinto.
Ma
ha potuto continuare
a praticare lo sci alpino fino a 84 anni, a condurre praticamente da
solo una
barca a vela di 35 piedi fino a 86. Ha cercato di convincersi di aver
dovuto poi
smettere solo perché mia mamma non sarebbe più
stata in grado di seguirlo. È
stato molto peggio dover prendere atto delle crescenti
difficoltà motorie di
mia mamma, che pure, anche lei, a 95 anni è ancora oggi
lucida. E poi rinunciare
a guidare l’automobile, che per lui, come per molti della sua
generazione, era
sinonimo di libertà e di indipendenza molto più
che di ingorghi o di
inquinamento. Ci sono voluti tre incidenti in due anni per convincerlo:
l’ultimo, che avrebbe potuto facilmente costargli la vita,
senza il minimo
danno fisico solo per un caso davvero molto molto fortunato. Mi
è rimasto il
dubbio che, se non si è trovato un medico disposto a non
rinnovargli la
patente, lo si dovesse alla riluttanza di molti di loro a farlo nei
confronti
del proprio vecchio professore.
Ha
avuto una vita
piena, intensissima, lunga, lucida fino alla fine. Eppure non
è affatto morto,
come gli antichi patriarchi, “sazio di anni”. In
questo davvero uomo immerso
nella nostra ipermodernità, fin quasi all’ultimo
avrebbe voluto, quasi preteso,
di vivere più a lungo, di poter dare ancora il suo
contributo alla vita delle
sue società, di esserci vicino. Solo all’ultimo si
è dato per vinto, e senza
essere ancora per nulla appagato di tutto quel che ha fatto e di tutto
quel che
ha dato.
Eppure
per chi resta,
anche per chi, come me, ha sempre coltivato piuttosto un tendenziale
pessimismo
naturalistico e ancor più un pessimismo storico di fondo che
a lui era estraneo
ma che la temperie di questi anni purtroppo avvalora, averlo avuto come
padre è
la testimonianza che non sempre e non necessariamente la vita
è per tutti l’ombra
che cammina o il povero attore che strepita per il tempo che gli
è concesso, ma
che, almeno per qualcuno, più fortunato o più
capace di coltivare con
persuasione e con amore il proprio giardino, può anche
essere un’impresa
sostanzialmente fortunata.
Chi
non trova buone
ragioni per illudersi o credere o sperare in resurrezioni o rinascite
celesti o
terrene può solo sopravvivere in quel che rimane della sua
opera, e nella
memoria di chi lo ha conosciuto amato e stimato. Sono certo, come so
che certamente
lo siete anche voi, che mio papà resterà vivo
ancora molto a lungo in quel che
ha contribuito a costruire, e nella memoria e nella forte
“eredità d’affetti” che lascia a tanti, amici,
colleghi, consoci,
collaboratori, pazienti, ex allievi, conoscenti, non solo a Trieste,
non solo ad
Aurisina, ma anche a Mestre, a Campolongo, a Lanzo d’Intelvi.
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